domenica 18 gennaio 2015

Show, don’t tell - Parte 2 ovvero quando l’Ikea insegna a scrivere

Ritorno su questo tema perché secondo me è molto (ma molto) importante capirlo. Il tutto con beneficio d’inventario perché questi sono solo umili appunti e ragionamenti ad alta voce di qualcuno che sta cercando di studiarsi l’argomento. Per chi desidera contribuire, i commenti sono i benvenuti.
Dunque “mostrare e non raccontare”. Intanto, perché?
Credo sia dovuto al funzionamento di base del cervello umano: lavora per immagini e non per “parole pure”.

Porto un esempio personale: alle superiori ho studiato per qualche tempo tedesco (ad oggi ho solo un ricordo più o meno vago della lingua e riesco a malapena a spiccicare/comprendere qualche parola, non oltre). Durante una vacanza in Alto Adige, presi la funivia per andare a fare una passeggiata ristoratrice per i monti con pausa mangereccia al rifugio. Bene, senza pensarci troppo so che “funivia” in tedesco si dice “Seilbahn”. E questo è curioso perché non conosco a menadito parole molto più utili come ad esempio “carta igienica” o “dentifricio” o “semaforo”. Come mai?
Perché quando penso a una funivia, mi salta in testa un’immagine netta di un cartello piazzato nel parcheggio dell’impianto con scritto a chiare lettere “Seilbahn” a fianco della figurina della cabina appesa alla fune. Per me quindi funivia equivale a quell’immagine lì: il cartello illustrato, la baita tirolese, i gerani alla finestra, le macchine nel parcheggio (sento ancora il rumore degli scarponi sulla ghiaia) e… zac mi si accende la lampadina: “Seilbahn”.
Ph. credit: Jody McIntyre

A parte l’interessantissimo ricordo di vita vissuta, con questo volevo solo dire che è molto più semplice ragionare per immagini che per pure parole. A scuola può anche essere che mi avessero insegnato l’equivalenza “funivia=Seilbahn”, ma questa è stata sepolta dalla miriade di altre parole più o meno astratte che ho ficcato a mano a mano nel cervello. Agganciando invece una parola a un’immagine (e non a un’altra parola), funziona, rimane scolpita nel cervello.
Quindi se vogliamo rendere più facile la vita a un lettore (e non stancarlo, cioè perderlo), è meglio fare lavorare il suo cervello per immagini, cioè MOSTRARE una scena piuttosto che raccontarla con parole vaghe e astratte.
Facciamo un altro esempio.

Esempio 1
Sara aveva fame, ma non voleva fare brutta figura con Giacomo, allora ordinò qualcosa di leggero tentando di coprire il brontolio dello stomaco. In quel momento si vergognò.

Esempio 2
Sara si portò una mano sulla pancia e si piegò in avanti quel tanto che bastava a sopprimere il brontolio dello stomaco. Si schiarì la voce e scorse la lista delle pietanze. Il cameriere era lì impalato da un po’ e Giacomo aveva già scelto la sua pizza. Lei si mordicchiò il labbro e poi chiese un’insalata. Il cameriere scarabocchiò una sigla sulla comanda e li lasciò soli.
“Non ho fame” mentì.
Lui sorrise.
In quel momento lo stomaco di Sara ruggì come un leone nella savana. Lei sgranò gli occhi e nascosta dal tavolo si stritolò la pancia con una mano.

Ok, al di là della bruttezza della mia scrittura, penso si capisca la differenza principale tra l’esempio 1) dove ho usato parole vaghe e astratte e l’esempio 2) dove ho cercato di mostrare una scena. Penso sia migliore la soluzione numero 2. Sì, è vero non sono una scrittrice e come scrivo è abbastanza orrido, ma spero sia un po’ più chiaro il concetto di “Show, don’t tell”.
Scrivere l’esempio numero 2 è stato più complicato e stancante. Ho dovuto sforzarmi di immaginare un po’ meglio la storia e trovare le parole giuste per rendere la scena che avevo in testa. Come si vede “mostrare invece che raccontare” richiede molta più fatica, più tempo e più spazio. Il secondo brano è infatti più lungo del primo, però ha il vantaggio di rendere in modo migliore la scena, è più preciso e fa risparmiare fatica al lettore. Nel primo brano gli lasciamo invece un po’ troppo lavoro da fare: deve infatti leggere una parola astratta, “tradurla” in un’immagine e vedere la scena. Meglio fornirgli già l’immagine… altrimenti non si spiegherebbe nemmeno perché vengono prodotti così tanti film e così pochi radioromanzi (bè, qui si apre un’altra voragine di discussione, ma non è questo il momento per affrontarlo).

Mi viene in mente un altro esempio: le istruzioni di montaggio dei mobili dell’Ikea. Quante parole usano per spiegare come montare anche il mobile più complesso? Zero (o quasi). Bastano le figurine (che hanno anche il vantaggio di funzionare in tutte le lingue). Se al posto di tante immagini con la sequenza delle operazioni da compiere avessero optato per un libretto pieno zeppo di istruzioni raccontate a parole, di sicuro io non ci capirei un accidente e invece di montare una scrivania, alla fine mi ritroverei con un bel mucchio di legna da ardere.
Capito questo, non significa però che lo “Show, don’t tell” sia un dogma a cui non si possano fare mai deroghe. A parer mio, niente di più sbagliato. Perché? Per il suo evidente difetto: è più lungo descrivere una scena in questo modo piuttosto che raccontarla. Quindi, quando dobbiamo fornire particolari veloci o riassumere cosa magari è accaduto tra un capitolo e l’altro, può essere molto più intelligente raccontare invece che mostrare. Ma questo va fatto solo per i passaggi da una situazione a un’altra ovvero per evitare la descrizione di scene che tutto sommato non sono di vitale importanza e si possono riassumere in poche parole.

Alla prossima,
Vanilla

Bibliografia e approfondimenti
Ikea: per chi non li conoscesse, consiglio di scaricarsi un qualsiasi libretto di istruzioni per il montaggio di un mobile Ikea: mostrano, invece che raccontare.

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